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Immagine del redattoreElisabetta Pevarello

Il parto oggi. Ma il tema della Nascita riguarda tutti noi

L’aumento della spesa sanitaria a cui abbiamo assistito impotenti nelle ultime decadi sta portando il servizio sanitario pubblico sull’orlo del collasso e malgrado l’Italia sia un paese in cui sono presenti grandi risorse ed eccellenze sanitarie, sempre più spesso non siamo in grado di offrire a cittadini servizi e cure necessari. Carenze e difficoltà (grave mancanza di personale con blocco del turn-over, mancanza di posti letto in ospedale, lunghe liste d’attesa per analisi strumentali, aumento del ticket sanitario, ecc) sono diventate talmente comuni da non fare neanche più notizia e hanno costretto molte persone a rivolgersi al percorso sanitario privato. Dunque è necessario e urgente un cambiamento nella gestione che possa permettere un’efficace ottimizzazione delle risorse.

Nella nostra società il parto è stato medicalizzato e sottomesso a una tecnologia, chirurgica e farmacologica, molto invasiva e con costi umani e sociali elevatissimi. Con il 38% dei tagli cesarei l’Italia si colloca al 1° posto in Europa e al 3° posto nel mondo e nella sola Campania il 60,2% delle nascite avviene per via chirurgica. Stiamo assistendo ad un radicale cambiamento bio sociale riguardo alla modalità con la quale si partorisce e si viene al mondo e malgrado i peggiori risultati in termini di salute per madre e neonato, la corsa alla medicalizzazione non sembra invertire la sua tendenza. Al contrario, l’aumento dei tagli cesarei è stato del 350% negli ultimi 30 anni. Questo cambiamento non riguarda solo un momento determinato, circoscritto, nella vita di alcune persone, ma “l’evento della nascita” inteso nella complessità culturale, sociale, politica ed economica occupa una posizione centrale nel modo in cui una società organizza e concepisce se stessa.

Dunque il tema della nascita riguarda tutti noi. Ci riguarda una prima volta perché tutti noi siamo nati e il modo in cui siamo venuti al mondo ha un’influenza sulla nostra salute fisica e sul nostro approccio alla vita: è stato un parto facile e stimolante o al contrario difficile, che ha messo a dura prova la nostra capacità di adattamento post natale? Siamo stati separati per giorni e giorni da nostra madre o abbiamo potuto sperimentare un contatto precoce con il suo corpo? Dopo la nascita siamo stati in un ambiente che permetteva un efficace rilascio di ossitocina e di endorfine o era al contrario ricco di catecolamine? Il nostro cervello è plastico e molto adattabile ma l’ambiente ormonale in cui ci troviamo può privilegiare la connessione di alcune trasmissioni neuronali rispetto ad altre e, dunque, può incidere sul nostro carattere. In una parola: epigenetica.

Ci riguarda una seconda volta perché siamo tutti nati da una donna e il modo in cui ella ha partorito ha un’influenza sia su di lei come persona sia sul modo di essere madre, sulle proiezioni che avrà su di noi, sulle paure, sulla fiducia che ha e avrà nelle sue capacità. Si è sentita forte e competente nel momento del parto o, al contrario è stata disconfermata nelle sue capacità e si è sentita spaventata e fragile? Oppure ha potuto subito prendersi cura di noi in un ambiente che l’ha sostenuta quando e se ne aveva bisogno? Con questo non si vuole affermare che il momento della nascita determini un cambiamento definitivo e radicale nell’individuo ma si vuole riconoscerlo come momento che, insieme a tanti altri stimoli (biologici, sociali, culturali e ambientali) ha un’influenza e un’importanza che troppo spesso è stata sottovalutata se non del tutto ignorata. Per questi e altri motivi la nascita e il parto sono eventi che coinvolgono sia i singoli individui che tutta la collettività ed è significativo che, eccetto rari casi, le riflessioni e le rivendicazioni provengano esclusivamente da donne. Ancora oggi purtroppo tendiamo a considerare la nascita e la maternità temi da e di donne.

Sicuramente il cambiamento più evidente è rappresentato dal passaggio dalla nascita per via vaginale a quello per via chirurgica, cambiamento che riguarda quasi il 40% della popolazione italiana. Quali possono essere le motivazioni che hanno portato a trasformare in poche decine di anni un processo che ci appartiene e ci caratterizza , in quanto mammiferi, da centinaia di migliaia di anni? Spesso si sente dire che sono le donne stesse che preferiscono la nascita chirurgica, socialmente percepita come più sicura per la salute di mamma e bambino.

Altre considerazioni attribuiscono maggiori responsabilità al medico ginecologo, il quale, per motivi di lucro (in alcune realtà per il taglio cesareo viene infatti riconosciuto un compenso economico maggiore) o di “profitto aziendale”, nonché disorganizzazione del proprio lavoro, preferirebbe la via chirurgica. Da ultimo, in ordine, ma non in importanza, secondo l’establishment medico, è l’atteggiamento difensivo del medico, e quindi il timore di essere accusato di non aver “fatto abbastanza” per tutelare la salute di mamma e bambino, rappresentare la principale causa di ricorso al taglio cesareo.

Ma possiamo in coscienza, sentirci di scoraggiare medici e donne dalla scelta del parto chirurgico e sostenere che sia veramente preferibile il parto vaginale, il cosiddetto parto naturale? Per rispondere a questa domanda dobbiamo chiederci qual è il percorso che, nella grande maggioranza dei casi, le donne fanno nei nostri ospedali e centri nascita. In base ai risultati del Cedap ( certificato di assistenza al parto) e a quelli forniti da altre indagini, sappiamo che le donne sane, con una gravidanza normale, vengono routinariamente sottoposte a una lunga lista di pratiche, alcune perfino invasive e dannose, senza che vi sia nessuna evidenza scientifica a sostegno. Eccone alcune: clistere e depilazione all’accettazione in reparto; ago canula dall’inizio del travaglio; monitoraggi cardiotocografico a permanenza ( che obbliga la donna a rimanere sdraiata a letto, o al massimo, in piedi senza possibilità di camminare e muoversi per tutta la durata del travaglio); scollamento delle membrane attraverso una visita vaginale dolorosa e spiacevole; impedimento di bere e di mangiare con conseguente idratazione attraverso soluzione endovenosa; rottura artificiale delle membrane per accelerare il travaglio. Alle donne inoltre non viene permesso di scegliere la posizione del parto, così come raccomandato dall’OMS e dalla Evidence Based Medicine, ma, al contrario, viene imposta la posizione sdraiata sul lettino da parto con il monitoraggio attaccato da una parte, la flebo dall’altra e un operatore corpulento che spinge sulla pancia (manovra di Kristeller) per velocizzare quella che è diventata a tutti gli effetti non un parto ma “estrazione del feto”. Per finire, la pratica dell’episiotomia, un taglio chirurgico della vagina di circa 4 cm che, sebbene ritenuta utile soltanto in meno del 5%, viene effettuata nel 70% dei parti circa senza nemmeno chiedere il consenso e informare la donna. A questo punto al neonato, a prescindere dalle condizioni di salute, viene immediatamente reciso il cordone ombelicale e portato al pediatra per la visita di routine e dunque separato dalla madre contrariamente a quando l’OMS raccomanda ormai da più di 30 anni.

Questi sono gli interventi, praticati spesso senza indicazione medica, a cui rischia di essere sottoposta la donna sana, con gravidanza normale, senza che venga informata e senza che le venga chiesto il consenso e dunque negandole di fatto una scelta. Pratiche invasive, dolorose e alcune anche dannose. Unico conforto, quando c’è, l’epidurale. Non c’è da stupirsi se molte donne e molti medici di fronte a questa via crucis considerino il taglio cesareo un’ottima ed efficace alternativa al parto. Il taglio cesareo rappresenta dunque il risultato finale di una serie di eventi di una iper medicalizzazione, di una patologizzazione della gravidanza, sulla cui origine è importante indagare.

Ma perché la maggior parte delle donne accetta, supinamente, questa manipolazione e oltraggio al proprio corpo? A mio parere, il bisogno di sicurezza della donna per la sua salute e per quella della persona che nasce e la sua paura nel confrontarsi con un evento sì naturale ma al tempo stesso nuovo e sconosciuto, sono state la leva sulla quale far pressione. Noi operatori sanitari dal canto nostro, non siamo più in grado di riconoscere competenze che da sempre sono proprie delle donne: un sapere del corpo che permetteva loro di avere fiducia e di poter attingere alla propria capacità, a delle risorse interne, che le consentivano di lasciarsi andare a partorire. Al contrario, troppo spesso trattiamo le donne come s(oggetti) passivi incapaci di comprendere la complessità dell’evento parto. Questo atteggiamento di sfiducia è stato inconsapevolmente introiettato dalle donne portandole a delegare ad altri, percepiti come più competenti, quanto più possibile. Non a caso in molti incontri di accompagnamento alla nascita viene insegnato come spingere durante la fase espulsiva e perfino come respirare nelle diverse fasi del travaglio. È stato messo in atto un processo di dis empowerment, le donne sono state delegittimate delle loro competenze nell’evento. Adesso il protagonista della sala parto moderna è il medico, l operatore sanitario che sa e salva.

Nasce all’interno di questo processo di delegittimazione una nuova narrazione della gravidanza e del parto che, ri-definendoli, non permette più di viverli al di fuori del contesto medico e ospedaliero.

Questo forse è il punto centrale della questione perché il modo in cui definiamo la realtà la determina: è la definizione che crea la realtà e la definizione non può che avvenire a opera del gruppo maggioritario, dominante, a discapito del gruppo minoritario, dominato in questo caso rispettivamente medici (storicamente e tradizionalmente uomini) e donne. La classe media, definendo la gravidanza a basso o ad alto rischio non bene qualificabile ha, di fatto, imposto il controllo sulla nascita e sul corpo della donna.

Anche l’affermazione, ripetuta negli ultimi 40 anni come un mantra ai convegni e alla formazione universitaria di medici e ostetriche, che il parto sia fisiologico solo a posteriori, cioè definibile come parto normale solo dopo che sia avvenuta la nascita del bambino, ha il potere di trasformare tutti i travagli, fisiologici o patologici che siano, in una procedura medica, interferendo così con la libera scelta della donna di come e dove viverla.

Questa definizione ha importanti conseguenze anche sugli operatori sanitari, i quali, percependo il parto come un processo potenzialmente rischioso, sempre soggetto a imprevisti cui solo un ambiente medico altamente specializzato può far fronte vivono in uno stato di ansia e di allerta che non permette nessun riconoscimento della soggettività della persona e si traduce spesso in interventi non appropriati. L’appello al rispetto della fisiologia, della libera scelta della donna, della depatologicizzazione, viene percepito come poco scientifico, una sorta di ingenua umanizzazione di un percorso che in realtà è pieno di pericoli e sfugge alla capacità di valutazione delle donne. In questa cornice concettuale, fare più controlli, esami, ecografie, non ha un significato medico di prevenzione della salute ma, piuttosto e soprattutto, quello di placare l’ansia, diventando quasi un rito che assolve alla funzione di esorcizzare la paura, paura comune alle donne e ai medici al tempo stesso: se la gravidanza è comunque sempre a rischio (alto o basso) voglio che venga fatto tutto il possibile, in una spirale senza fine. Riguardo a questo aspetto trovo quanto mai calzante l’affermazione della storica Barbara Duden “La nostra società è la prima che, possedendo delle tecniche, ne è al tempo stesso posseduta.” con questa affermazione non si vuole sostenere che che ciò che è naturale sia buono a discapito delle nuove possibilità offerte dalla tecnologia, a cominciare dall’epidurale a finire, perché no, al taglio cesareo su richiesta. Ma si vuole mettere in discussione i pregiudizio che le migliori condizioni per la salute di mamma e bambino debbano necessariamente esserci nella sala parto più attrezzata e moderna, con un maggior numeri di strumenti a disposizione. Gli studi al contrario dimostrano che il parto è tanto più sicuro quanto risponde ai bisogni della donna: il luogo più sicuro per partorire è il luogo in cui la donna si sente più sicura. Dunque il parto a casa, se è il luogo scelto dalla donna, è sicuro tanto quanto il parto in ospedale, come ribadito più volte dall’OMS. Bisogna resistere alla grossolana tentazione di confondere la scienza con la tecnologia, e dunque considerare come unico approccio veramente scientifico il luogo dove la tecnologia sia più presente ed efficace. La demedicalizzazione di gravidanza e parto possono avvenire solo attraverso una re-definizione istituzionale dell’evento, di tutto il processo riproduttivo (che inizia con la gravidanza e termina con il parto). La medicalizzazione rappresenta anche uno spreco di risorse economiche che non ci possiamo più permettere e proprio perché parliamo di fisiologia e di persone sane, non malate, risulta molto indovinato lo slogan del movimento Slow Medcine “Less is mor” che si batte contro l’abuso della tecnologia, a favore dell’appropriatezza delle pratiche sanitarie e per l’ottimizzazione delle risorse economiche in medicina. Less in questo contesto vuol dire promuovere la professione dell’ostetrica che in Europa rappresenta il riferimento per la donna dall’adolescenza alla menopausa, l’assistenza alla gravidanza e al parto, l’allattamento, le informazioni sulla contraccezione e sull’aborto, la prevenzione delle MTS. L’ostetrica è Less rispetto al medico ginecologo perché è un operatore specializzato non nella patologia ma solo nella fisiologia e nella prevenzione della patologia. More sta per “più ostetriche” perché l’evidenza scientifica e gli studi OMS confermano che dove è maggiore la presenza delle ostetriche migliori sono i risultati in termini di salute per le donne e i bambini. Questo perché l’ostetrica è la figura sanitaria esperta della fisiologia che promuove la capacità personale nel trovare soluzioni efficaci, aiuta la consapevolezza dei propri bisogni, l’autodeterminazione, a stare in relazione nel rispetto dell’autonomia della persona e ne favorisce la fiducia nelle proprie competenze e capacità: in una parola favorisce l’empowerment.

Nel percorso nascita assistiamo non solo allo spreco delle risorse ma anche a un aumento della mortalità e morbosità materna e neonatale e all’inaccettabile brutalizzazione di un evento che molte donne definiscono fondante. Le donne possono così liberarsi finalmente da questo atteggiamento paranoico e terroristico che la mancanza di fiducia ha determinato: mancanza di fiducia delle donne verso se stesse e degli operatori verso il corpo delle donne; mancanza di fiducia di tutti noi nei riguardi di una competenza che è tutta femminile.

Faccio dunque appello a medici, psicologi, ostetriche, ma anche a sociologi e filosofi, perché attraverso il contributo di tutti sia possibile restituire alle donne ciò che è stato loro tolto.

Da Pregiudizi sulla Nascita di Gabriella Pacini

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